La guerra partigiana è una miniera di storie tragiche e meravigliose in procinto di essere dimenticate. Questo libro, che costituisce un ideale completamento delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, pubblicato da Einaudi nel 1952, vuole rilanciare il messaggio di una pluralità di voci, ancora forti ed autonome, accomunate dall’esigenza di testimoniare gli episodi drammatici vissuti dall’Italia nel biennio 1943-1945.
Le oltre 300 testimonianze raccolte nel testo sono cariche di dolore: il ricordo delle devastazioni prodotte dalla guerra, dell’allontanamento dalle proprie famiglie, delle torture e delle violenze subite appare in ogni riga inestinguibile. Tra le pagine, sottolinea Giacomo Papi, uno dei curatori dell’opera: “Si scappa balzando sui tetti delle case e si scalano alte montagne in pieno inverno. Si seppelliscono i compagni orrendamente mutilati, piangendo, cantando canzoni composte in onore dei morti, recitando poesie. Si marcia tra villaggi dati alle fiamme e civili massacrati. Si sentono arrivare da lontano i passi degli stivali che preludono ai rastrellamenti e si finisce prigionieri in una cella putrida, circondati dagli altri torturati e condannati a morte”.
Eppure il risvolto positivo della tragedia è avvertito altrettanto fortemente. Gli ultimi testimoni della Resistenza ci mostrano come dietro la loro azione vi fosse un’idea di democrazia, di libertà e giustizia; come per loro la parola "popolo" si riconnettesse ad un’ideale di eguaglianza e di solidarietà imprescindibile. Un sentimento dalla forza imperante che spingeva ad agire istintivamente, scegliendo senza ombra di dubbio da che parte stare.
Gli autori delle lettere, tutti giovanissimi, all’epoca dei fatti, erano consapevoli di vivere insieme sulle montagne per costruire il futuro. La loro fu una rivolta contro l’ottusità bestiale e ridicola del Regime, contro i soprusi dell’invasore tedesco e l’inaccettabilità della guerra. Da quell’impulso partirono per andare oltre il disastro e ricostruire su nuove basi il futuro proprio e delle generazioni a venire. Nella testimonianza di Vittorio Deageli si legge: “Allora si pensava: quando avremmo vinto avremmo vinto tutti. Non solo noi, ma anche i nostri avversari”. Così in quella di Nello Quartieri: “La libertà era nei monti, per la prima volta riuscivamo a sentirla e picchiava in testa”. I Partigiani, sintetizza giustamente Papi, erano “i vettori di una rivendicazione democratica, ancora prima che potessero padroneggiarne il termine”.
Particolarmente consapevole, tra le altre, appare la voce di Gilberto Malvestuto. Il tenente della Brigata Maiella, con il suo intervento non solo rende la giusta parte all’Abruzzo nella memoria collettiva della guerra di Liberazione italiana sintetizzata dal volume, ma mostra una lucidità ed una determinazione fuori dal coro. “Noi non portavamo nomi di battaglia, essendo inquadrati fin dai primi momenti nei reparti ufficiali dell’Esercito Italiano. Il principe di casa Savoia ci corteggiava, ma non abbiamo mai ceduto alle lusinghe. Repubblicani non avevamo le stellette sulla divisa, ma il tricolore sul bavero […] In mezzo al disastro andavamo avanti: tra le bombe, i rumori, la fame, la miseria e la gente nascosta negli anfratti. La paura ci accompagna[va] sempre, ma il desiderio di cambiare era così grande che non ci si pensava per niente”. |