RICORDIAMO E RIFLETTIAMO
Erano le ore 19,42 dell’8 settembre 1943 quando i cittadini italiani che ascoltavano la radio, non tanti, sentirono il capo del Governo, gen. Badoglio, che annunciava l’entrata in vigore dell’armistizio di Cassibile con il quale l’Italia, sfinita e prostrata, si arrendeva agli Alleati anglo-americani.
L’annuncio seguì, non senza risentimento e polemiche verso gli alleati, quello dato poco prima, alle ore 18,30, dal generale Eisenhower da Radio Algeri.
La decisione era nell’aria da alcuni mesi, a partire, già, dal 25 luglio quando il regime fascista era collassato e il governo era stato affidato a Badoglio che mise immediatamente in atto le opportune azioni diplomatiche per porre fine alla guerra.
La resa dell’Italia apparve subito come una manifestazione di debolezza legata a incertezza nell’assunzione delle decisioni e a grande confusione organizzativa.
In una guerra la resa di uno dei contendenti è accettabile e rientra nei canoni, l’arrendevolezza di allora, senza idee chiare e senza una strategia di uscita, invece, fu l’espressione di grave negligenza e incapacità dei personaggi che gestirono la situazione che, indubbiamente già di per sé pesante, assunse aspetti di estrema contraddittorietà e confusione foriera di pericoli e rischi per il popolo italiano.
E così fu. L’esercito, in Italia e all’estero, non ebbe disposizioni certe contro chi dovesse combattere; molti reparti militari lontani dalla madrepatria erano disinformati; mancavano piani e programmi da mettere in atto appena dopo la firma dell’armistizio, in particolare non si era a conoscenza dei comportamenti da assumere verso i tedeschi, in Italia e all’estero.
Da Roma, alle notizie dell’avanzata dei tedeschi, che prevedendo la resa dell’Italia, avevano studiato una sua immediata occupazione, il re, con tutta la struttura di corte, il capo del Governo, Badoglio, alcuni ministri e diversi generali, misero in atto una clamorosa fuga verso il sud dell’Italia, occupata dagli alleati.
Le personalità, in viaggio verso l’Adriatico, dove, dal porto di Ortona raggiunsero Brindisi, attraversò l’Abruzzo, già parzialmente occupato dai tedeschi. Il corteo fu fermato dai tedeschi nella Valle Peligna, tra Raiano e Corfinio, ma, stranamente, fu fatto proseguire verso la destinazione stabilita.
Alla fuga precipitosa dei governanti si accumunò lo sbandamento generale delle truppe.
Gran parte dei militari, ufficiali e soldati semplici, che operavano nel territorio della penisola abbandonarono le caserme e, in abiti borghesi, tornarono, a piedi o con mezzi improvvisati e di fortuna, alle loro città e paesi, di residenza. Altri militari, incerti e indecisi, si consegnarono con le armi ai tedeschi che provvidero subito a trasportarli in Germania.
Altrettanto accadde ai militari che operavano fuori dell’Italia (Grecia, Albania, Iugoslavia, ecc.). Essi, senza ordini e disposizioni degli alti comandi militari, furono catturati e disarmati, spesso con l’inganno, dai tedeschi. Coloro che resistettero e combatterono contro gli ex alleati furono trucidati (Cefalonia).
Fatti prigionieri, i soldati italiani, considerati traditori, dovettero scegliere tra la prosecuzione della guerra nelle fila tedesche oppure l’internamento nei campi di detenzioni in Germania poiché considerati prigionieri di guerra. Solo il 10% dei soldati, dei circa 900.000, accettarono di proseguire la guerra; gli altri subirono l’internamento sperando che i tedeschi applicassero la Convenzione di Ginevra. Così non fu! Essi furono ritenuti arbitrariamente dai tedeschi “internati militari” e, quindi, non soggetti alle garanzie previste dalla Convenzione. Dall’autunno del 1944 fino alla fine del conflitto gli internati furono considerati “lavoratori civili” e, quindi, sottoposti a qualsiasi lavoro a favore dell’esercito degli ex alleati e delle stesse comunità germaniche, dove erano reclusi.
Anche a Sulmona le caserme furono abbandonate dai militari e subirono il saccheggio di civili alla ricerca di provviste. Nel contempo,l’avv. Rocco Santacroce, vice comandante del campo di concentramento 78 della Badia, che ospitava 3.800 prigionieri di guerra alleati, aprì,di sua iniziativa e senza alcun ordine superiore, i cancelli del campo consentendo l’allontanamento di quasi tutti i prigionieri. Il fatto ebbe degli sviluppi importanti per la società peligna che, nella circostanza, mise in evidenza grandi dosi di solidarietà, a volte a sprezzo della vita, nell’aiutare i fuggitivi, nascondendoli al nemico oppure consentendogli di attraversare il Morrone e la Maiella per raggiungere i comandi militari alleati stanziati a Casoli.
Intanto, in Italia, l’occupazione tedesca aveva interessato tutto il nord e il centro, senza trovare eccessive difficoltà e resistenza.
Fu allora che l’orgoglio nazionale e il desiderio di libertà, già provati il 25 aprile 1943 con la caduta del fascismo, presero maggiormente corpo e si svilupparono in moltissimi italiani, in particolare giovani, che avevano provato o visto l’arroganza, la cattiveria e la ferocia degli occupanti tedeschi. Nell’Italia del nord sorse il Comitato di Liberazione Nazionale mentre nel centro e centro-sud vennero organizzati gruppi di combattenti, più o meno numerosi, nelle città, paesi, villaggi e campagne: i partigiani.
L’Abruzzo si distinse, fra le regioni del centro sud, nell’organizzazione della resistenza ai tedeschi che imperversavano nel territorio regionale, in particolare nelle aree interessate dalla Linea Gustav (basso adriatico, valle dell’Aventino e dell’alto Sangro) effettuando ruberie, rapine e saccheggi, uccidendo vecchi, donne e bambini, ordinando lo sfollamento di casolari di campagna e interi paesi, che venivano immediatamente distrutti e dati alle fiamme.
Fu proprio nella Valle dell’Aventino, a ridosso della Maiella, montagna madre dell’Abruzzo, (Torricella Peligna, Casoli, Taranta Peligna,Gessopalena, ecc.) che l’organizzazione delle bande partigiane assunse un aspetto inconsueto e diverso dalle altre situazioni in essere in Italia. Ciò si deve all’opera di un grande personaggio della resistenza italiana: l’avv. Ettore Troilo. Egli ebbe l’avvedutezza di unire le diverse bande che operavano in quel territorio e metterle a disposizione dell’esercito alleato per combattere i tedeschi fino alla liberazione dell’Italia. Così nacque la Brigata Maiella che da banda di forti e coraggiosi partigiani, si trasformò, a Sulmona, dopo la liberazione di gran parte dell’Abruzzo, in un vero e proprio corpo militarmente organizzato. Proprio dalla Valle Peligna, la Brigata Maiella, vide rinforzato il suo organico da centinaia di giovani spinti dai nobili ideali di libertà.
Proprio per onorare chi combatté per riconquistare la libertà, consentendoci di conservarla in uno Stato repubblicano e democratico, è necessario ricordare l’8 settembre 1943 che, nel bene e nel male, ha segnato un tratto importante del percorso della nostra storia, della storia dell’Italia. Il ricordo deve essere di esempio e stimolo a tutti, in particolare ai governanti ma, anche ai comuni cittadini, a non ripetere gli errori che hanno portato a lutti e tragedie, singole e collettive.
Vincenzo Pizzoferrato
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