Associazione Nazionale "Brigata Maiella"
MEDAGLIA D'ORO AL Valor Militare
Sezione SULMONA - VALLE PELIGNA
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Giuseppe LABRETTA |
20/08/1923 – SULMONA – 21/3/2015 “UNA LEZIONE DI VITA”
C’è chi dice che la durata della vita è come un battito di ciglia.No, la vita è un volo avventuroso dove la morte è solo il traguardo finale che bisogna tagliare da vincitore. Siamo certi che Giuseppe questa corsa l’ha vinta nettamente! Una vita vissuta, tanti momenti difficili, piccole gioie ma intense, fanno di un uomo all’apparenza fragile e minuto, dotato di forza fisica e volontà sorprendenti, un grande maestro di vita.
Giuseppe Labretta, per tutti Peppe, nasce a Sulmona il 20 agosto 1923 da una numerosa ed umile famiglia di via Gran Sasso. Il padre Camillo ha lì una piccola bottega di falegname; ancora ragazzo Giuseppe perde la madre e, per portare avanti la famiglia, va a lavorare alla Montecatini di Bussi. Chiamato alle armi nell’Aeronautica a Gaeta, dopo l’8 settembre 1943, per sfuggire ai nazifascisti, si nasconde e riesce finalmente dopo qualche settimana a raggiungere Sulmona, proprio nel momento peggiore delle rappresaglie. Quando nasce la Brigata Maiella si unisce senza esitazione ai partigiani e risale la Penisola, dopo aspri combattimenti come quelli nei primi di dicembre a Brisighella. Nella Primavera del ‘45 i partigiani della Brigata Maiella sono le prime truppe di liberazione ad entrare a Bologna il 21 aprile ed il 1° maggio ad Asiago. Con la fine della Guerra la Brigata Maiella si scioglie il 15 luglio 1945 a Brisighella con gli onori militari degli alleati inglesi e polacchi con i quali i partigiani avevano combattuto fianco a fianco per oltre un anno. Giuseppe ritorna a casa, ma la guerra ha lasciato ferite profonde nella famiglia con la perdita di due fratellini nei bombardamenti e con la distruzione della sua città. Non c’è lavoro e Giuseppe decide allora nel ’49, a 26 anni, di emigrare in Venezuela, a Maracaibo, come carpentiere nella costruzione dei pozzi petroliferi. Torna dopo tre anni, per pochi giorni, nell’ottobre del ‘52 per sposare la donna della sua vita, Maria figlia di Salvatore Pagliaro e Anna Di Iorio; razza contadina forte e gentile, anch’essi di famiglia numerosa e anch’essi colpiti nello stesso bombardamento dalla perdita di due bambini, solo Maria era stata estratta viva! Al suo ritorno in Venezuela, Giuseppe e Maria non mancano mai di scriversi ogni settimana, e Peppino le invia sue foto da quel posto veramente invivibile. Passano nove mesi e le lettere di Maria cominciano ad essere accompagnate dalle notizie sulla nascita del loro primogenito, Alberto, al quale la mamma aveva voluto dare il nome del suo fratellino morto nel bombardamento. Una stupenda notizia e una grande gioia per Giuseppe nel ricevere foto del suo bimbo che cresce in compagnia degli zii materni Silvestro e Damiano, ma la vita destina a Giuseppe ancora una prova crudele; suo padre Camillo muore proprio davanti la bottega in un incidente incredibile e tragico e lui è lontano. Ma la vita e il lavoro devono andare avanti. Finalmente nel ‘57 Peppino torna definitivamente dal Venezuela e trova un nuovo lavoro presso il Mobilificio Scipione e la gioia della nascita del secondo figlio Maurizio. La soddisfazione di creare con le mani dal nulla lo rende felice; il legno sotto le sue mani si modella come burro anche se la paga per il duro lavoro è appena sufficiente per tirare avanti e far studiare i due figli. Allora fa le ore piccole nella sua bottega di via Gran Sasso, vuole dare alla sua famiglia una casa e finalmente, nel ‘66 comincia la costruzione di quel fabbricato in via Stazione, un progetto per quei tempi ambizioso che con la sua volontà e quella di sua moglie e dei suoi fratelli si realizza parzialmente dopo almeno tre anni e poi completato dopo circa un decennio! I ragazzini di via Gran Sasso chiamano “Fabbrica” quel cantiere continuo che va avanti solo quando ci sono i soldi ed è, insieme al Colle, il luogo preferito per i giochi senza pensare ai rischi che si corrono tra impalcature, ferri, tavole con i chiodi, cataste di mattoni e sacchi di cemento. Dopo ormai quasi cinquant’anni le porte e finestre che ha costruito Mastro Peppe sono ancora lì, le stesse. Ogni tanto qualche pausa di riposo: un compleanno, un matrimonio, un cinema, la partita e basta! Ma la fatica fisica e gli strascichi della vitaccia in Venezuela prendono il sopravvento e la salute fisica precipita: blocco renale, pancreatite acuta, epatite, calcoli, ecc. Momenti di coma e di pericolo di morte dietro l’angolo; l’ospedale per mesi è la sua seconda casa, ma la tempra di Peppe è fuori dal comune e ogni volta supera con incredibile vitalità ogni malattia, anche grazie alla forza di quella minuscola donna che egli chiama affettuosamente “zèppùcce” la sua piccola zeppa di legno, il puntello indispensabile per sorreggerlo e affrontare le difficoltà della vita. A complicare la situazione si aggiunge che Scipione chiude i battenti. È finito il boom economico, ma Peppe non l’ha mai vissuto, e si trova da un giorno all’altro senza lavoro e non bastano quella piccola bottega e qualche lavoro saltuario a montare infissi. Si rimette in gioco ad ormai 50 anni e accetta un incarico di bidello supplente; svolge questo lavoro per lui inusuale con passione, serietà e disponibilità, il più delle volte lo si vede ad aggiustare maniglie, porte, serrande. Trova sempre il modo e il momento di dare sfogo alla sua vera passione: il legno. Il portafoglio ritrovato con lo stipendio di un professore non lo ingolosisce, la sua onestà lo porta a restituire al legittimo proprietario quel denaro che per lui sarebbe stato una boccata d’ossigeno! Gli basta un encomio e un citazione sul giornale. Poi quel lavoro diviene definitivo e questo lo rende appagato, prende uno suo stipendio fisso e avrà la pensione! Gli studenti ne fanno un punto di riferimento della scuola, lui si diverte con i giovani, si sente giovane, i pochi rimproveri sono solo educativi. Il parroco, Don Vittorio D’Orazio, lo vuole fortemente come collaboratore nella colonia estiva diocesana di Silvi Marina, una vacanza di lavoro. Quando lo vai a trovare è sempre indaffarato, a piantare gli ombrelloni, a riparare infissi, a spazzare i viali dalle foglie, ad accudire i bambini meno fortunati che ne hanno bisogno, a guidare il pulmino della spesa; un factotum sempre pronto a correre dove c’è ne è bisogno. Anche la Colonia di Silvi dopo vent’anni chiude e allora, pensionato, tutta la sua dedizione si riversa sulla sua Cattedrale, un attento e insostituibile custode, ma come se ciò non bastasse trova il tempo di dedicarsi anche ai servizi della Camerata Musicale. Lo si vede andare su e giù per la Villa Comunale e il Corso, mai un attimo di sosta su quelle panchine che molto tempo dopo avrebbe tanto desiderato di frequentare con i pochi amici della gioventù ormai rimasti. La sua passione per il legno è immutata ma ormai l’età e le malattie non gli permettono grandi lavori; lui non disdegna di creare piccoli gioielli in noce per i figli e i nipoti: tavoli, sedie, vetrine, sgabelli, consolle, panche, portagioie. Ora la delicatezza e la precisione hanno preso il sopravvento sulla forza, l’uomo combattente con il fucile e la pialla adesso usa ancor di più le stanche mani, ma l’amore che mette in quel che realizza è identico, anzi adesso viene dal profondo del cuore. Le sue uscite sono ormai limitate a qualche incontro con gli amici partigiani reduci della Brigata Maiella in occasione delle commemorazioni dei Caduti della guerra, dove sfila orgoglioso per aver servito la Patria e conquistare la Libertà! Il suo cruccio è grande quando non può partecipare ai raduni nazionali e soprattutto all’incontro al Quirinale con il Presidente della Repubblica Napolitano. Il culmine della sua gioia di vivere è senza alcun dubbio il 26 ottobre 2012, ai 60 anni di matrimonio con la sua amata Maria festeggiato nella sua Cattedrale di San Panfilo, con i suoi cari e gli amici che lo amano, lo stimano e da lui hanno imparato. È stato Nonno Peppe, Zio Peppe, Compare Peppe, Mastro Peppe, O’ Pè, ma sempre Maestro di vita. ********** Quando ormai hai dato tutto, hai tagliato vittorioso il traguardo e da quel nastro in poi qualsiasi altro passo è inutile; meglio fermarsi, ricevere il premio e riposare per sempre. Voler fortemente vivere non significa aver paura della morte ma godere pienamente di ogni giorno che l’amore del Signore e della famiglia ci regalano! “La morte coglie impreparati solo chi prende la vita come un battito di ciglia e non come una lunga e difficile corsa contro il tempo.... da vincere”! |