Associazione Nazionale "Brigata Maiella"
MEDAGLIA D'ORO AL Valor Militare
Sezione SULMONA - VALLE PELIGNA
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Ricordo di Guido Di Cosmo, combattente della banda Palombaro e della Brigata Maiella |
Affido il ricordo di Guido Di Cosmo alla trascrizione integrale dell'intervista che mi concesse il 2 settembre 2006, come contributo alla mia ricerca storica su “I Martiri partigiani di Chieti”. Storia memoria rimozione,che caldeggiò e sostenne come presidente del Comitato provinciale e regionale dell'ANPI. Era la prima intervista che accettava di fare, per raccontare, tornando molto indietro con la memoria (nel 1943 aveva 18 anni), la sua coraggiosa partecipazione alla Resistenza. Lo ha fatto a cuore aperto e con mente libera da autocensure, rispondendo con franchezza anche a qualche domanda scomoda. Ha perfino ammesso di aver fatto, in fuga da Chieti per non essere catturato dalla banda Fioresi, un'errata scelta di campo, per breve tempo, prima di arruolarsi nella Brigata Maiella, incurante del pericolo che tale confessione avrebbe potuto offuscare la sua immagine di patriota e mettere in dubbio la legittimità della sua nomina a dirigente dell'ANPI e della “Maiella”. Una sincerità non comune, che lo onora. (Filippo Paziente, storico)
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Questa è la prima intervista che accetto di rilasciare.
Cominciamo parlando della tua famiglia. La mia era una famiglia povera. Mio padre era un operaio edile, un bravo operaio, perché era chiamato “mastro Orlando”. Era antifascista. Mia madre si chiamava Carmela D’Urbano. Anche nelle mie vene scorreva il sangue antifascista. Ho avuto la fortuna di abitare a Porta Pescara, vicino alla Tintoria Odorisio, dove c’era una cellula comunista. La cellula era costituita da quattro elementi: i due fratelli Odorisio, proprietari della tintoria (tutti quei locali li ho comprati, per passione e per amore); il terzo e il quarto erano Nicola D’Addesso e Attilio Bevilacqua, padre di Licio, che lavoravano lì come tintori. Io, Stelio Falasca e Massimo Di Matteo ci formammo ascoltando i discorsi di questi uomini sulla giustizia sociale e sull’uguaglianza. Erano uomini di una serietà e onestà ammirevoli. Ricordo che dicevano: « La bistecca che mangiano i signori perché non tocca pure a noi?»Questi quattro venivano prelevati il giorno precedente una manifestazione fascista, portati nel carcere di S. Francesco e rilasciati il giorno dopo.
Il 25 luglio 1943 cade Mussolini. Che cosa succede a Chieti? Io ero studente. A Chieti ci fu una manifestazione spontanea, una festa di popolo; anche i fascisti si inserirono in questa manifestazione. Anch’io partecipai. Alcuni simboli fascisti furono distrutti. Nella sede della gioventù fascista, al Largo G.B. Vico, e in prefettura furono presi documenti, fotografie, gagliardetti, bandiere, pugnali.
Tu eri studente. Quale scuola frequentavi? L’Istituto Tecnico “Ferdinando Galiani”. A Chieti non ho conosciuto insegnanti antifascisti
Lì insegnava un professore… Ah, sì, Covich; era antifascista, ma non poteva dimostrarlo, perché era tenuto d’occhio. In effetti, non raggiunse subito la promozione a preside.
L’8 settembre la radio trasmette il comunicato di Badoglio sull’armistizio. Secondo gli storici, scombussolò le cose. Fece capire l’alleanza con gli angloamericani, ma non fece nessuna dichiarazione contro i nazisti. Il comunicato me lo ricordo perché gli ufficiali Salvatore Cutelli e Menotti Guzzi, che abitavano a Porta Pescara, dissero chiaramente che si trovavano in una situazione di sbando.
Dov’eri l’8 settembre? A Chieti.
Non stavi facendo il servizio militare? Io facevo parte della leva della Marina, che chiamava alle armi un anno dopo rispetto all’esercito. A Chieti non c’era la leva marina. Sarei dovuto andare ad Ancona, ma per motivi di studio il mio arruolamento fu rinviato di un anno.
Quindi, hai potuto partecipare subito all’organizzazione del movimento partigiano. Sì. Ci fu un raccordo con gli antifascisti precedenti, con Romeo Migliori, con Pietro Falco, con Eugenio Bruno che abitava sopra casa mia. Io abitavo dove ora c’è il ristorante Giardino, al piano terra; Bruno abitava al secondo piano, Guzzi al terzo. Ci mettemmo subito al lavoro, poi si unirono i fratelli Mucci, Vittorio Di Carlo, Giuseppe Viola e tanti altri. Pensammo subito di procurarci il materiale per la lotta partigiana. Io partecipai alla requisizione delle armi nelle caserme (molto attivi furono Ernesto Di Gregorio, Fernando Gialloreto, Gennaro Di Carlo ed altri giovani, i cui nomi in questo momento non mi vengono in mente e mi scuso perché non li cito). Alcune armi ci furono consegnate dagli ufficiali disposti ad aiutare il movimento, altre le rubammo nei depositi. Fu costituito un Comitato con ufficiali che pensarono a organizzare la Resistenza. Questo è molto importante: ciò che è stato ideato, è stato messo in pratica dopo alcune ore. Uno dei primi movimenti resistenziali in Italia è nato qui a Chieti. Gli ufficiali – c’erano anche i fratelli Zannolli – decisero come difendere strategicamente la provincia, dove collocare le postazioni per bloccare l’invasione o la ritirata dei tedeschi.
Quali zone furono scelte per dislocarvi i nuclei della banda? Palombaro, Casoli, Bucchianico, Roccamontepiano, Pennapiedimonte, Pollutri, Chieti stessa (Santa Barbara, per esempio). Queste postazioni erano sentinelle vigilanti. Io seguii la rotta di Palombaro, dopo la sosta di una giornata a Bucchianico, con una camionetta piena di armi. Io ed altri.
Quali altri? D’Addesso, Falasca, Di Matteo, Finore, Di Gregorio, Colazilli, Sebastiani, Cavorso, Cappelletti, La Corte, Di Pietro… Il medico Vincenzo Giamberardino era già tornato a Palombaro. Questo paese era il caposaldo delle postazioni, anche perché il gruppo giunto qui era il più numeroso: a Capo le Macchie eravamo circa 200.
Come vi accolsero i cittadini di Palombaro? I contadini ci accolsero amichevolmente e ci aiutarono. Le famiglie delle classi più elevate con indifferenza e anche con paura, perché temevano di essere vittime di rappresaglie da parte dei tedeschi.
Tu a quale operazione hai partecipato? Ai primi di ottobre con Adalgiso Di Pietro, Biagio La Corte, Pietro Cappelletti, Giovanni Pompilio fui mandato a perlustrare la strada che unisce Palombaro a Palena. Ci imbattemmo in una camionetta tedesca, proveniente dall’Adriatico e diretta a Palena. Ci fu uno scambio di fucilate. Noi avevamo i fucili, i famosi moschetti 91: caricavi e sparavi, ricaricavi e sparavi. I tedeschi avevano le armi automatiche. Riuscimmo a fermare la camionetta, a fare due prigionieri, a uccidere due tedeschi. Un prigioniero scappò, raggiunse Palena e diede l’allarme. La mattina dopo la banda fu attaccata da una divisione corazzata tedesca proveniente da Palena. Furono uccisi Adalgiso La Cioppa e Di Pietro, ferito La Corte, che, nonostante le amorevoli cure del dott. Giamberardino, mori tra le mie braccia, dissanguato. Anche Giovanni Pompilio fu gravemente ferito e rimase zoppo per tutta la vita. Resistemmo una giornata e mezza, ma non potevamo fare la guerra con i moschetti 91 contro i fucili mitragliatori. Eravamo pronti per la guerriglia, assalto e ritiro, assalto e ritiro. Lì, invece, ci fu uno scontro frontale in campo aperto e fummo costretti a ritirarci. I partigiani che stavano al paese si rifugiarono sulle montagne; noi che stavamo sotto, scappammo per le campagne e, ripassando per Bucchianico, sempre a piedi raggiungemmo Chieti. I fascisti iniziarono la ricerca meticolosa, puntigliosa, cattiva dei partigiani che facevano parte della “banda Palombaro”.
Dopo gli scontri di Palombaro, la banda subì uno sbandamento. Sì, durò circa un mese. Dopo lo sbandamento, gli ufficiali riorganizzarono la banda.
Ma i nazifascisti intensificarono la caccia al partigiano. Lo sapevamo. Di giorno apparivamo poco o niente. Ci incontravamo la sera.
Dove? Nel dispensario che stava dove ora c’è il parcheggio di Papa Giovanni; oppure da Migliori, nel garage dell’officina di Amato Cerretani, nella Tintoria Odorisio. Non facevamo grosse riunioni, usavamo il passaparola.
Veniamo alla riunione in cui furono catturati i partigiani fucilati a Bussi. Cutelli commise un’ingenuità, credette di poter avere un incontro con due ufficiali inglesi per contatti organizzativi.
Chi lo convinse che sarebbe stato possibile questo incontro? Cutelli era un ufficiale esperto. Sì, ma anche i fascisti erano esperti. Misero Cutelli in contatto con un falso ufficiale, che riuscì a convincerlo.
Chi era il falso ufficiale? Era Tieri. L’intero Comitato antifascista avrebbe incontrato due ufficiali inglesi in una casa di fronte alla chiesa del Sacro Cuore.
In casa Tieri? Si diceva casa Tieri, ma non era di Tieri; però ne aveva la disponibilità. La riunione era fissata per il 3 dicembre 1943, alle ore 9. Io ebbi l’incarico di recarmi nei pressi di Bucchianico, per guidare i due ufficiali sul luogo della riunione. Non trovai nessuno. Tornai a Chieti per informare il Comitato. Passando vicino alla chiesa di S. Antonio, Francesco Verna mi disse: «Non andare, i partigiani sono stati traditi e catturati.» Io me la svignai e, assieme a Domenico D’Addesso, lasciai la città e mi diressi verso le Marche. Tornai dopo qualche giorno e seppi che erano stati portati a Bussi. Qui subirono il processo e nelle grotte di Bussi furono fucilati. Non tutti, però: alcuni si salvarono.
Chi si salvò e perché? Migliori per le sue non buone condizioni di salute; Tracanna perché ritenuto estraneo. Ah, ecco, molte riunioni le facevamo nel vecchio ospedale civile, dove lavorava il dott. Luigi Colazilli. Anche suo padre era un antifascista.
Tra i fucilati c’era anche il sottotenente Giuseppe Viola, tuo cugino. In un documento conservato nell’Archivio storico comunale di Chieti ho letto che la mamma si chiamava Evelina Di Cosmo. Evelina era la sorella di mio padre.
Dov’era tuo cugino l’8 settembre e come tornò a Chieti? Dov’era non me lo ricordo. Tornò a Chieti con Vittorio Di Carlo.
Venne con voi a Palombaro? Quale ruolo ebbe nella banda? Peppino Viola non fu a Palombaro, ma restò a Chieti con gli ufficiali incaricati di procurare armi, compiere azoni di sabotaggio e stabilire i collegamenti con gli alleati.
In questa sede è esposta una lettera che mons. Bonaventura De Luca, parroco della SS. Trinità, inviò il 3 luglio 1944 a mons. Venturi. Gli chiede di intercedere presso il Comando alleato perché fossero cancellate le gravi sanzioni alle quali tu e Domenico D’Addesso sareste andati soggetti per aver violato il 10 giugno l’ora del coprifuoco. Stavate tornando a casa dopo aver fatto visita alla mamma di Viola, che attendeva con angoscia notizie relative alla ricerca delle salme di Bussi. Mons. De Luca conclude la lettera precisando che l’intercessione era richiesta “in considerazione che il motivo che li fece trovare fuori casa è patriottico, e che i giovani in parola sono partigiani di Palombaro e saranno quanto prima in linea con gli altri compagni per combattere a fianco degli alleati”. Ci fu l’intercessione di mons. Venturi? Sì
Fu celebrato un funerale unico per i fucilati di Bussi e Colle Pineta o i funerali furono due in tempi diversi? Furono celebrati due funerali distinti in tempi diversi.
Dov’è sepolto Viola? Nel Cimitero di Chieti, nella cappella di famiglia.
Riprendiamo il filo del discorso sulla “banda Palombaro”. Che cosa fecero i partigiani di Chieti ancora liberi, dopo Bussi? Dopo Bussi, io, Di Matteo, Falasca, Sebastiani, Gialloreto, Di Gregorio ed altri riorganizzammo una specie di comitato, che agiva di notte. Siamo stati fortunati. I tedeschi si fermavano a mangiare in una bella trattoria in Via De Lollis, dove fino a poco tempo fa c’erano i fratelli Di Nisio che vendevano le televisioni. Una sera, svaligiando le auto che i tedeschi parcheggiavano vicino alla trattoria, abbiamo trovato una mappa con il piano operativo del fiume Moro: vi erano segnate le varie postazioni tedesche. L’abbiamo consegnata al tenente medico Antonio D’Ercole, che stava riorganizzando la “banda Palombaro”. In questo periodo abbiamo compiuto importanti atti di sabotaggio.
Quali? Rubammo armi nelle macchine tedesche e ne facemmo saltare una; per alcuni giorni tenemmo prigionieri due tedeschi, poi li liberammo, perché non avemmo il coraggio di fucilarli. Una sera decidemmo di incontrarci in una casa di tolleranza in Via Paradiso. Alcuni giovani fascisti (Ezio, Marino, Lino e altri), comandati da Fioresi, che era spietato, catturarono dei partigiani. Io non andai alla riunione e mi salvai. Vennero però a casa mia Lino ed Ezio. Dissero a mia madre: «Cerchiamo suo figlio solo per farci una chiacchierata.»Io capii, saltai dalla finestra, di corsa feci la discesa del gas e arrivai a Chieti Scalo. Qui incontrai Mimì D’Addesso. Di nascosto prendemmo il treno sul quale i tedeschi trasportavano del materiale a nord. Prima di Porto Civitanova il treno si fermò per i bombardamenti, scendemmo e proseguimmo a piedi. In una casa cantoniera fummo presi dai fascisti, portati alla caserma di Ancona e tenuti per tre giorni in prigione. Le nostre credenziali per essere liberati le diede De Lucia, impiegato del Catasto a Chieti, che era stato trasferito ad Ancona. Con mezzi di fortuna, proseguimmo per il nord. Per la fame, ci arruolammo come volontari nella X flottiglia Mas, che ci portò a San Donà di Piave. Da lì, rifocillati e forniti di vestiario, dopo 15 giorni scappammo. Riattraversammo tutta la Toscana e arrivammo a L’Aquila. La sera ci intrufolammo dentro un camion che trasportava i viveri al fronte nostro e in mezzo a sacchi di riso tornammo a Chieti. Aspettammo la liberazione alla Madonna delle Piane, nascondendoci per molto tempo nelle grotte lungo la discesa del gas. Qualche giorno dopo la liberazione della città, mi presentai all’ufficio dell’Ente Turismo e mi arruolai nella Brigata Maiella. A Porto Recanati facemmo un certo periodo di addestramento, poi ci trasferimmo in Toscana e combattemmo per un mese in prima linea. Trascorso un periodo di riposo, tornammo al fronte e partecipammo alle ultime operazioni militari della Brigata sul fiume Senio e sul Monte Mauro, fino al suo scioglimento. A Chieti tornai a studiare con ragazzi più giovani di me e mi diplomai geometra.
Anche tu eri giovane. Nel 1945 avevo 20 anni.
Come mai dopo la liberazione di Chieti ti arruolasti nella Brigata Maiella? Perché volevo continuare l’attività resistenziale intrapresa, lo spirito antifascista ce l’avevo nel sangue, mi ero formato nel contatto quotidiano con la cellula comunista della Tintoria Odorisio. Mio padre, come ho già ricordato, era antifascista, prese anche un sacco di legnate.
Hai ricevuto qualche attestato per aver partecipato alla guerra di liberazione? Come patriota della Brigata Maiella, ho ricevuto la Croce al valor militare e la Croce al merito di guerra
Come dirigente dell’ANPI, attualmente quale carica ricopri? Sono presidente del Comitato provinciale e regionale.
Da quando? Da trent’anni. Prima l’ANPI di Chieti non aveva la sede. Questa sede la pretesi dalla Provincia perché l’ANPI la meritava per i suoi Caduti, per la sua storia, per la vicenda dello sfollamento, che io ho subito e vissuto.
Perché subito? Perché noi eravamo sei figli e nelle tre camere di casa ospitammo tre famiglie, due di Ripateatina e una di Miglianico. Io dico con coscienza che, tranne alcuni episodi, la popolazione di Chieti ha accettato e assistito gli sfollati.
A quali episodi ti riferisci? Episodi di intolleranza da parte di gente che voleva approfittare degli sfollati, che avevano portato con sé dei viveri. Nel periodo in cui parte di Chieti doveva sfollare, alcuni di questi sfollati che non avevano voluto cedere alle pressioni dei chietini per avere questi viveri, furono presi e portati al nord. Ma si tratta di pochi episodi, su 80.000 sfollati. L’affermazione che Chieti non è stata ospitale è una bugia. La popolazione fu, nel complesso, generosa. Io ho fatto anche delle ricerche sul periodo dello sfollamento, per documentare che Chieti merita una onorificenza, come l’hanno meritata altri paesi. Chieti è l’unica città della provincia che non ha avuto un riconoscimento ufficiale. Lo merita per la partecipazione eccezionale, documentata, alla Resistenza, con molti Martiri; perché l’amministrazione comunale fece le carte false per trasferire gli sfollati da una zona a un’altra e per procurarsi le famose tessere annonarie che servivano per distribuire il pane; perché l’arcivescovo Venturi molto si adoperò per salvare la città.
Sai che era stato preparato un progetto per costruire un mausoleo in cui traslare e custodire i resti dei Martiri partigiani di Chieti? La vicenda l’ho seguita poco. Mio padre tornò dall’Africa malato e dovetti subito pensare a lavorare.
Il progetto l’aveva preparato l’architetto Giuseppe Colazilli, zio del dott. Colazilli fucilato a Bussi. L’ANPI aveva anche promosso una sottoscrizione, ma non riuscì a realizzarlo. L’ANPI era inquinata, perché, dopo la Liberazione, immediatamente riprese il sopravvento la classe politica fascista e nell’associazione si infiltrarono dei personaggi, che portarono avanti più il discorso dei reduci della guerra che quello dei partigiani.
In questa sede è conservata copia dell’atto di concessione della Medaglia d’Oro al Valor Militare “alla memoria” ad Alfredo Grifone. Anche il maggiore Salvatore Cutelli fu decorato di medaglia d’oro. Come mai non è conservato anche il suo documento? Mancano anche diverse lettere dei partigiani chietini condannati a morte, attestati al valor militare… I documenti non è facile trovarli. Alcuni sono stati sottratti per ordine di quelli che inquinarono l’associazione.
Quel manifesto–testimonianza, Viva l’Italia, datato 4 luglio 1944, estratto dagli “appunti sommari del padre di un Martire della Libertà”, è una copia? Sì, l’originale è conservato nell’Archivio Storico Comunale. Nell’Archivio ho trovato altri documenti utili per la richiesta di una onorificenza al Gonfalone del Comune. Sono ora conservati in questa sede, chiusi in una busta.
Chi era il padre e chi il Martire? Non lo so.
Ritieni tu che l’ANPI provinciale possa ancora oggi contribuire a trasmettere alle nuove generazioni la memoria e i valori della Resistenza codificati nella Costituzione? Se sì, come? Penso che l’unica associazione che ha titolo e documentazione storica per trasmettere ai giovani la memoria dei fatti resistenziali è l’ANPI, nata con la Resistenza. Bisogna ricominciare il discorso dalle scuole. Io e il prof. Luigi Antonucci l’abbiamo fatto più volte. Il discorso ai giovani studenti va ripreso e portato avanti. |